Lo confesso: ho un sogno.
Nel mio sogno non c'è l'ostetrica che, mentre ti accompagna in sala parto, ti chiede “Hai fatto l'amniocentesi?” e a alla tua risposta alza gli occhi al cielo esclamando “Siamo nella mani del Signore!” come se ogni nato imperfetto sia una disgrazia da evitare solo non facendolo nascere, ma nel mio sogno ci sono operatori pronti ad accogliere la vita, consapevoli che ognuna ha il suo valore e porta qualcosa di buono nella vita degli altri.
Nel mio sogno la famiglia non viene mai abbandonata a sé stessa, ma viene indirizzata e supportata correttamente fin dal primo momento in cui un bambino disabile nasce, a prescindere dalla condizione sociale in cui si trova e dal luogo geografico in cui vive.
Nel mio sogno i servizi sociali, e tutte le associazioni che ci ruotano attorno, non sono un business che crea occupazione e voti, ma servono per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e si impegnano per farlo, perché credono che ciò sia veramente possibile.
Nel mio sogno non esistono insegnanti che ti chiedono se ti sei informata della presenza o meno sul territorio di scuole “più idonee” al tipo di insegnamento che tuo figlio dovrebbe ricevere, ma esistono insegnanti per cui se solo tu lo pensassi la sentirebbero come una loro sconfitta.
Nel mio sogno non c'è posto per l'insegnante di sostegno che va a scuola solo per fare presenza e prendere lo stipendio al 27, ma esistono solo insegnanti (come ce ne sono già tanti) che lo fanno perché sanno di poter fare, più di altri, la differenza nella vita dei bambini e ragazzi che incontreranno.
Nel mio sogno non ci sono gli insegnanti curricolari che pensano che il bambino disabile sia dell'insegnante di sostegno, ma esistono insegnanti che si mettono a fianco del loro collega e costruiscono insieme un percorso (e anche di questi, fortunatamente, ce ne sono tanti ma non abbastanza)
Nel mio sogno non ci sono dirigenti scolastici che vedono la disabilità come una pratica burocratica da sbrigare , ma ci sono dirigenti che la trattano come una risorsa educativa per tutti, e come un'occasione per mettersi in gioco e far mettere in gioco gli insegnanti che ci si rapportano.
Nel mio sogno non ci sono bambini e ragazzi abbandonati a sé stessi perché “tanto non possono”, “tanto non vogliono”, ma c'è una rete che, nel suo complesso, li aiuta a trovare le potenzialità su cui puntare prima, e il proprio posto nel mondo, qualunque esso sia, dopo.
Nel mio sogno non esistono famiglie che si arrendono per stanchezza, ma esistono famiglie che devono morire per arrendersi, perché riescono a intravedere delle possibilità e non solo strade chiuse.
Questo è il mio sogno, un sogno in cui davvero tutti i bambini hanno le stesse possibilità, hanno la stessa fiducia da parte del “sistema” a partire dalla Val d'Aosta fino alla Sicilia. Ci sono problemi e situazioni comuni a tutti i luoghi, è vero, ma ci sono anche situazioni virtuose perché ci si crede, ci sono gli esempi positivi e, allora, come cercare di realizzare un sogno “impossibile” se non cercando di far comunicare i due mondi, se non cercando di dare fiducia laddove è più difficile, per tutta una serie di problemi sociali, logistici e culturali?
La sfida è quella di sostituire la mentalità assistenzialista con una possibilista, che affermi che ogni bambino e ragazzo con sindrome di Down (ma non solo) ha delle possibilità, delle capacità e che queste vanno messe in luce e fatte “vivere”.
Per questo quando Martina (in tempi in cui non sapevamo neanche la distribuzione geografica dei partecipanti) mi ha parlato dell'idea di fare la premiazione al sud come mezzo di divulgazione di una cultura dell'inclusione (o integrazione come preferite) mi è sembrata un'idea in linea con i nostri scopi sociali, tra cui il principale è proprio quello della diffusione di una cultura della non diversità, che non vuol dire affatto che i nostri figli sono uguali agli altri, ma che vanno date loro le stesse opportunità di base che hanno tutti. Poi la scelta è caduta sulla Puglia perché, nelle passate edizioni, é stata sempre la regione in cui c'è stata maggior partecipazione e che ha portato a casa anche diversi premi, purtroppo questa edizione non ha replicato e ci siamo trovati spiazzati.
Ed è per portare questo messaggio ancora più forte, che abbiamo deciso di farlo in una parte d'Italia dove ci sono già grossi problemi di diverso tipo, tanto da non aver tempo di preoccuparsi di disabilità, e abbiamo deciso di farlo in modo diverso, nuovo, coinvolgendo loro: i ragazzi con sindrome di Down, perché pensiamo che non ci sia messaggio più efficace, che far sentire dai ragazzi stessi che quelle opportunità le hanno avute, che esiste anche un futuro possibile: il nostro sogno.
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