Permettetemi di esprimere alcuni miei pensieri che mi sono venuti dalla lettura del libro: “Come pinguini nel deserto”. Premetto che non l’ho letto ancora per intero, sono circa a metà.
Io non sono sposato e non ho figli però mi è stato affidato il compito di collaborare all’educazione di un bambino con SDD di una coppia di miei carissimi amici. Così io intendo l’essere padrino di battesimo del loro figlio. Questo mi dà una piccolissima competenza (nata e sviluppata sul campo) per parlare su questo argomento. Vorrei soffermarmi solo su due momenti della “diversità” di un figlio con SDD.
Il primo: fin dalla nascita del bambino nessuna delle esperienze riportate nel libro (di quella parte che finora ho letto) accenna a somiglianze varie con mamma, papà, nonni o altri stretti familiari. In altre occasioni di nascite di figli “normali” ho sentito fare l’elenco delle varie somiglianze somatiche. Sembra quasi un rituale inevitabile che penso serva a riconoscere il bambino all’interno della famiglia allargata. E’ un po’ come dire che quel figlio ha qualcosa di “uguale” con la mia famiglia e per questo è accettato. Con un figlio Down ciò non sembra possibile: Lui è “diverso”. Già a questo livello io stesso mi sono accorto che accogliere la diversità costringe ad essere diverso. Devo subito cambiare i miei stereotipati gesti o pensieri abituali per gioire con i miei amici del figlio che gli è nato, altrimenti avrei fatto la faccia triste di circostanza chiamandoli “poveretti” per la “disgrazia” capitatagli. Per accoglierlo Lui stesso ci chiede di cambiare e, cambiare, significa essere diversi da come si è sempre stati. E’ come se la “diversità” esiga la “diversità”. Mi sembra di capire che avere un figlio (per me padrino di battesimo si dice: figlioccio) Down è possibile solo se si è disposti ad essere dei “diversi” per sempre, dalla sua nascita (accettarlo, esprimere gioia per lui, vantarlo davanti ai nonni, ai parenti, agli amici) lungo tutta la sua vita (non vergognarsi, lottare per dargli ogni possibilità, ecc.), fino alla sua morte. Se la sua diversità si esprime nei tratti somatici e nelle diverse capacità intellettive, emozionali ecc, per noi la diversità deve esprimersi nella nostra “forma mentis” all’interno di una società ancora incapace di accogliere coloro che non gli sono uguali (e questo non vale solo per le persone con SDD).
Secondo momento della “diversità”. I genitori hanno un progetto di vita per i loro figli? Chissà quanti durante il periodo della gravidanza. Chissà quanti sogni, ideali s’immagina di realizzare. Poi appare nella vita dei prossimi genitori il figlio con SDD e non ha importanza se lo sanno prima o dopo il parto; cosa succede? Alcuni si pongono il problema se accettarlo o no, altri lo accolgono subito ma in tutti cadono i progetti, i sogni. Si pensa subito al suo futuro, alla qualità della sua vita soprattutto dal punto di vista della sua autonomia. Allora nasce la domanda: come si fa ad educare un figlio Down? Forse la domanda non è posta in questi termini ma le analisi sulle proprie capacità, sui pregi e difetti della società nella quale viene ad inserirsi, sui luoghi comuni sempre fuorvianti la vera realtà del bambino, alla fine fanno emergere il problema principale: il superamento di tutto ciò passa attraverso il tema dell’educazione. Non servono i farmaci, la chirurgia ma solo un vero processo educativo nel senso più alto del termine.
Qualcuno ha detto “…occorre amarlo di più”. Accoglierlo è già amarlo: il “di più” cosa significa?
Ognuno dia la risposta che riesce a dare. Un ottimo punto di partenza per me può essere: “La mia diversità – dice il bambino – ha azzerato in te (mamma e papà) ogni tua pretesa di fare di me secondo i tuoi desideri; non sono così plasmabile nelle tue mani. Chiedo a te (mamma e papà) di capire in profondità chi veramente sono e di assecondare questo mio essere con la tua opera educativa senza pregiudizi, preconcetti o desideri nascosti”.
Io ho avuto diverse esperienze nel campo dell’educazione di ragazzi e giovani ma è la prima volta che mi sento a mia volta “educato” (e non sono giovanissimo) non da discorsi più o meno allettanti ma da atteggiamenti, richieste, sentimenti, comportamenti che forse inconsciamente questo ragazzo Down mi trasmette. Certamente anche Lui non va idealizzato: ha i suoi difetti, le sue resistenze; sta all’educatore saper distinguere.
Per finire voglio dire che la diversità di questo figlio libera i suoi educatori (in primis mamma e papà) dalla forte tentazione di fare di Lui una persona a “propria immagine e somiglianza” con l’enorme rischio di cocenti delusioni. Il fatto educativo non è mai a senso unico (dai genitori al figlio); esso è più efficace se da parte dell’educatore (ripeto in primo luogo i genitori) c’è disponibilità a lasciarsi educare dall’educato (scusate il gioco di parole).
Marzo 2006 ginmario
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