francesco
12-03-2007, 19:35
Tra handicap e lavoro il muro del pregiudizio
Luigina Venturelli
Paure. La persona giusta al posto giusto. L’inserimento delle persone con disabilità nel mondo del lavoro dovrebbe tendere a questo, non diversamente da quanto avviene per le cosidette persone normali: l’incontro tra domanda ed offerta d’impiego. Ma la paura del diverso in Italia è dura a morire, al pari della cultura caritatevole che nel portatore di handicap vede un soggetto da assistere, senza effettive potenzialità da spendere. Così, su 275mila posti riservati ai disabili, 110mila risultano scoperti nonostante siano 590mila quelli iscritti alle liste di collocamento perchè in cerca di un’occupazione. Le aziende, pubbliche e private, preferiscono sfuggire ad un obbligo vissuto come un peso da sopportare.
Invece la realtà dice il contrario: produttività più alta della media, assenteismo praticamente nullo, eccezionale dedizione ai propri compiti. «La soddisfazione personale che i portatori di handicap ricavano dall’avere un lavoro è talmente grande - racconta il presidente dell’Anffas, Roberto Speziale - che spesso diventa motivo di vita, unico veicolo d’integrazione sociale ed occasione di relazioni interpersonali». I casi d’inserimento avviati sul territorio lo confermano: creativi programmatori informatici, zelanti camerieri d’albergo, puntuali bibliotecari, infaticabili assistenti di cucina. «E l’azienda gode di un ulteriore vantaggio diretto: la creazione di un ambiente lavorativo più aperto dal punto di vista sociale e quindi più accogliente per tutti».
La strada giusta è quella del collocamento mirato introdotto dalla legge 68 del 1999. Vale a dire, l’inserimento nel mondo del lavoro realizzato attraverso strumenti ed istituzioni di supporto, che valutano le capacità lavorative delle persone disabili per metterle in contatto con le aziende sul territorio alla ricerca di simili professionalità, attraverso corsi di formazione specifica, periodi di tirocinio con tutor e, dopo l’assunzione, costante monitoraggio dell’ambiente di lavoro. L’azione combinata dei servizi provinciali dell’impiego e delle associazioni di settore può dare notevoli risultati: nel 2005 sono stati oltre 30mila i soggetti con handicap avviati ad un’occupazione.
«Ma sono numeri da leggere con attenzione - avverte il presidente Anffas - perchè spesso non fotografano esattamente la realtà. Su circa 160mila disabili che oggi lavorano in Italia, le persone con un vero handicap inserite in un vero contesto produttivo sono poche decine di migliaia». Il resto si divide equamente tra falsi invalidi e categorie protette a vario titolo, che sfruttano impropriamente le agevolazioni fiscali e gli incentivi predisposti a tutela della categoria. Così la legge 68 - come denunciato dall’ultima relazione parlamentare in materia, presentata dal senatore Ds Giovanni Battafarano - viene «spesso asservita a scopi meno nobili di quelli previsti dal legislatore».
Una normativa all’avanguardia, ma ancora lontana dalla piena applicazione per potersi definire in linea con gli obiettivi stabiliti dalle direttive europee. La situazione italiana, infatti, parla di discriminazioni che si aggiungono ad altre discriminazioni. Prima fra tutte quella tra disabilità motoria (come da tetraparesi spastica) ed intellettiva (come da sindrome di Down): benchè la seconda rappresenti il 67% di tutte le disabilità presenti nel Paese, copre solo il 15% dei posti occupazionali. Le disfunzioni di relazione, evidentemente, continuano ad essere vissute dalle aziende come più problematiche di quelle di movimento.
Da rilevare anche una pesantissima discriminazione sessuale, tale da giustificare l’introduzione delle quote rosa anche nel lavoro con handicap: le donne disabili non arrivano nemmeno al 10% della forza lavoro attualmente occupata attraverso la legge 68. Ed, infine, la solita differenza territoriale tra nord e sud: mentre nelle regioni settentrionali e centrali gli occupati con handicap sono, rispettivamente, al 41,9% e al 41,6%, nel Meridione la percentuale si ferma al 32,1%. Una disparità che non riflette solo il trend occupazionale dei normodotati, ma che nasce dalla scarsa attivazione dei servizi d’inserimento. Ancora più evidenti i dati sugli avviamenti al lavoro effettuati in convenzione con le province, che solitamente riguardano le disabilità più gravi: delle 5.300 persone avviate nel 2005, il 73,4% è stato al nord, il 19% al centro e solo il 7,6% al sud.
«In Italia non esiste una cultura adeguata sulle persone con handicap - conclude Roberto Speziale - viste come soggetti da assistere e non come lavoratori con un certo grado di abilità. E le aziende vengono meno all’azione di responsabilità che la legge chiede loro, scaricandola sulla cooperazione sociale che spesso si rivela un surrogato». Lo spreco di risorse economiche è degno dei più noti scandali del Belpaese: «Per la formazione dei soggetti con handicap si fanno investimenti sociali importanti - il Fondo nazionale per il diritto al lavoro dei disabili ammonta a circa 30 milioni di euro - ma poi si butta tutto al vento non applicando le loro competenze».
Luigina Venturelli
Paure. La persona giusta al posto giusto. L’inserimento delle persone con disabilità nel mondo del lavoro dovrebbe tendere a questo, non diversamente da quanto avviene per le cosidette persone normali: l’incontro tra domanda ed offerta d’impiego. Ma la paura del diverso in Italia è dura a morire, al pari della cultura caritatevole che nel portatore di handicap vede un soggetto da assistere, senza effettive potenzialità da spendere. Così, su 275mila posti riservati ai disabili, 110mila risultano scoperti nonostante siano 590mila quelli iscritti alle liste di collocamento perchè in cerca di un’occupazione. Le aziende, pubbliche e private, preferiscono sfuggire ad un obbligo vissuto come un peso da sopportare.
Invece la realtà dice il contrario: produttività più alta della media, assenteismo praticamente nullo, eccezionale dedizione ai propri compiti. «La soddisfazione personale che i portatori di handicap ricavano dall’avere un lavoro è talmente grande - racconta il presidente dell’Anffas, Roberto Speziale - che spesso diventa motivo di vita, unico veicolo d’integrazione sociale ed occasione di relazioni interpersonali». I casi d’inserimento avviati sul territorio lo confermano: creativi programmatori informatici, zelanti camerieri d’albergo, puntuali bibliotecari, infaticabili assistenti di cucina. «E l’azienda gode di un ulteriore vantaggio diretto: la creazione di un ambiente lavorativo più aperto dal punto di vista sociale e quindi più accogliente per tutti».
La strada giusta è quella del collocamento mirato introdotto dalla legge 68 del 1999. Vale a dire, l’inserimento nel mondo del lavoro realizzato attraverso strumenti ed istituzioni di supporto, che valutano le capacità lavorative delle persone disabili per metterle in contatto con le aziende sul territorio alla ricerca di simili professionalità, attraverso corsi di formazione specifica, periodi di tirocinio con tutor e, dopo l’assunzione, costante monitoraggio dell’ambiente di lavoro. L’azione combinata dei servizi provinciali dell’impiego e delle associazioni di settore può dare notevoli risultati: nel 2005 sono stati oltre 30mila i soggetti con handicap avviati ad un’occupazione.
«Ma sono numeri da leggere con attenzione - avverte il presidente Anffas - perchè spesso non fotografano esattamente la realtà. Su circa 160mila disabili che oggi lavorano in Italia, le persone con un vero handicap inserite in un vero contesto produttivo sono poche decine di migliaia». Il resto si divide equamente tra falsi invalidi e categorie protette a vario titolo, che sfruttano impropriamente le agevolazioni fiscali e gli incentivi predisposti a tutela della categoria. Così la legge 68 - come denunciato dall’ultima relazione parlamentare in materia, presentata dal senatore Ds Giovanni Battafarano - viene «spesso asservita a scopi meno nobili di quelli previsti dal legislatore».
Una normativa all’avanguardia, ma ancora lontana dalla piena applicazione per potersi definire in linea con gli obiettivi stabiliti dalle direttive europee. La situazione italiana, infatti, parla di discriminazioni che si aggiungono ad altre discriminazioni. Prima fra tutte quella tra disabilità motoria (come da tetraparesi spastica) ed intellettiva (come da sindrome di Down): benchè la seconda rappresenti il 67% di tutte le disabilità presenti nel Paese, copre solo il 15% dei posti occupazionali. Le disfunzioni di relazione, evidentemente, continuano ad essere vissute dalle aziende come più problematiche di quelle di movimento.
Da rilevare anche una pesantissima discriminazione sessuale, tale da giustificare l’introduzione delle quote rosa anche nel lavoro con handicap: le donne disabili non arrivano nemmeno al 10% della forza lavoro attualmente occupata attraverso la legge 68. Ed, infine, la solita differenza territoriale tra nord e sud: mentre nelle regioni settentrionali e centrali gli occupati con handicap sono, rispettivamente, al 41,9% e al 41,6%, nel Meridione la percentuale si ferma al 32,1%. Una disparità che non riflette solo il trend occupazionale dei normodotati, ma che nasce dalla scarsa attivazione dei servizi d’inserimento. Ancora più evidenti i dati sugli avviamenti al lavoro effettuati in convenzione con le province, che solitamente riguardano le disabilità più gravi: delle 5.300 persone avviate nel 2005, il 73,4% è stato al nord, il 19% al centro e solo il 7,6% al sud.
«In Italia non esiste una cultura adeguata sulle persone con handicap - conclude Roberto Speziale - viste come soggetti da assistere e non come lavoratori con un certo grado di abilità. E le aziende vengono meno all’azione di responsabilità che la legge chiede loro, scaricandola sulla cooperazione sociale che spesso si rivela un surrogato». Lo spreco di risorse economiche è degno dei più noti scandali del Belpaese: «Per la formazione dei soggetti con handicap si fanno investimenti sociali importanti - il Fondo nazionale per il diritto al lavoro dei disabili ammonta a circa 30 milioni di euro - ma poi si butta tutto al vento non applicando le loro competenze».