francesco
17-12-2006, 10:56
Corriere della Sera, cronaca di roma, 16.12.2006
In campo già tre giovanissimi, assistiti da operatori sociali. «È lo sport più adatto»
Avviato dall' Unione Capitolina un progetto senza precedenti. Una frontiera appena esplorata
Qui ci si mischia. Perché nel «pacchetto» non distingui le sagome e «la coralità e la solidarietà sono lo scheletro del gioco e del suo spirito». Allora Martino corre veloce con l' ovale in mano, Luca finisce nel fango e si rialza, Federico non molla l' avversario. Sono tre bambini con sindrome di Down. Oggi accomunati dal gioco del rugby, lo sport di contatto, ma al tempo stesso collettivo per eccellenza. Tutto avviene sui campi dell' Unione Rugby Capitolina, la società che milita nel Super 10 (con 250 minirugbisti under 15 è il miglior vivaio d' Italia), e si caratterizza anche per un grande impegno sociale. Portato avanti dall' associazione interna di volontariato, una Onlus che ha iniziato avvicinando al campo adolescenti con disagio familiare. Dal mese scorso è partita la «sperimentazione», che non ha precedenti, per «la socializzazione, attraverso il rugby, tra bambini che si sentono parte di un gruppo con un obiettivo comune». E così prima uno, poi un secondo e ora un terzo bambino, inseriti in una delle squadre - dall' Under 7 all' Under 11 - più idonea alle loro caratteristiche. Forse un quarto a febbraio 2007. Forse, perché? «Perché ci servirebbe un aiuto, un sostegno, una sponsorizzazione. La Capitolina fornisce tutta la parte tecnica ed un pullmino che porta i bambini al campo. Ma per ampliare il progetto e poter far venire nuovi bambini occorrono altri operatori. Da soli non ce la facciamo». Parla, con passione e capacità di coinvolgere, Francesca Rebecchini. Lei è una delle coordinatrici dell' iniziativa, in famiglia il rugby si mangia a colazione. Ed anche Martino, vedendo i fratelli più grandi, si è buttato presto nella mischia. Cosi è nata l' idea di sperimentare l' «integrazione di bambini down nel gioco del rugby», in collaborazione con l' Associazione italiana persone Down, che garantisce la presenza degli operatori sociali. Seguono il bambino sul campo, gli parlano quando magari tende ad estraniarsi. «Il nostro compito? Quello pian piano di sparire» - racconta Simone Consegnati, che da quattro anni opera nell' associazione - I down arrivano a fare le cose, ma con i loro tempi. Il rugby? Sinceramente non sapevo nemmeno cosa fosse un pilone. È però lo sport più adatto perché non ci sono barriere». Cosa dicono gli allenatori ai bambini down? «Le stesse cose che diciamo agli altri - risponde Marco Iscaro, coordinatore del settore tecnico - Corri e non farti prendere se hai la palla, cerca di prendere l' avversario quando ce l' ha lui». Vinta la paura iniziale, comprensibile, di qualche mamma, il resto vien da sé. «Federico, ad esempio - rivela Simone - giorni fa è uscito tutto infangato e stanchissimo, mi ha guardato e mi ha detto: il rugby è fichissimo». La pratica di questo sport è chiaramente un mezzo per trasmettere «rigore, altruismo e disciplina». Partendo dall' abitudine di lavarsi e vestirsi da soli. «Qualche settimana fa - racconta la signora Rebecchini - Martino è andato a Treviso con la sua squadra. Viaggio lungo, pasti e pernotto in cameretta da quattro. Tutto da solo senza la famiglia». La sperimentazione, infatti, ha la finalità di «crescita o sviluppo del senso di autostima ed indipendenza al fine di contribuire ad un miglioramento generale di vita del bambino». Ma segna, di fatto, anche un' altra meta, ugualmente importante. Come svela Iscaro. «Gli altri bambini imparano ad accettare la diversità. Capiscono che il contributo che ognuno può dare è importante, in campo e fuori. I bambini sono più aperti degli adulti». Già. È fuori dal campo di rugby che la gente si mischia di meno. * * * IL COMMENTO Una frontiera appena esplorata Che il rugby fosse uno sport diverso lo dice anche la sua origine: sbocciato durante una partita di football sul prato di un illustre college inglese per il gesto folle, anarchico, disobbediente, di un sedicenne che aveva deciso di andare contro le regole, prendere il pallone in mano e scappare a perdifiato inseguito da compagni e avversari. Diverso, da sempre, perché si combatte dentro a rigide regole, perché si rispettano regole mai scritte, perché il concetto di squadra annichilisce quello di individualità. E allora il progetto dell' Unione Capitolina, che porta in mischia ragazzi diversamente abili e li vede giocare, integrarsi, migliorare la loro condizione, è solo l' approdo naturale di un modo di intendere il rugby. A Paganica all' ala giocava un ragazzo sordomuto e nessuno se ne accorgeva, se non quando l' arbitro interrompeva il gioco e lui volava indisturbato verso la meta. Con la Capitolina qualche anno fa si esibiva un ragazzo dislessico e giocava, si divertiva, si integrava, nello sport e nella vita. Adesso i bambini Down che è un piacere vederli scappar via con il pallone sottobraccio. La frontiera è appena esplorata. Rugby è bello perché è diverso. E in mischia, per fortuna, diventano tutti uguali.
In campo già tre giovanissimi, assistiti da operatori sociali. «È lo sport più adatto»
Avviato dall' Unione Capitolina un progetto senza precedenti. Una frontiera appena esplorata
Qui ci si mischia. Perché nel «pacchetto» non distingui le sagome e «la coralità e la solidarietà sono lo scheletro del gioco e del suo spirito». Allora Martino corre veloce con l' ovale in mano, Luca finisce nel fango e si rialza, Federico non molla l' avversario. Sono tre bambini con sindrome di Down. Oggi accomunati dal gioco del rugby, lo sport di contatto, ma al tempo stesso collettivo per eccellenza. Tutto avviene sui campi dell' Unione Rugby Capitolina, la società che milita nel Super 10 (con 250 minirugbisti under 15 è il miglior vivaio d' Italia), e si caratterizza anche per un grande impegno sociale. Portato avanti dall' associazione interna di volontariato, una Onlus che ha iniziato avvicinando al campo adolescenti con disagio familiare. Dal mese scorso è partita la «sperimentazione», che non ha precedenti, per «la socializzazione, attraverso il rugby, tra bambini che si sentono parte di un gruppo con un obiettivo comune». E così prima uno, poi un secondo e ora un terzo bambino, inseriti in una delle squadre - dall' Under 7 all' Under 11 - più idonea alle loro caratteristiche. Forse un quarto a febbraio 2007. Forse, perché? «Perché ci servirebbe un aiuto, un sostegno, una sponsorizzazione. La Capitolina fornisce tutta la parte tecnica ed un pullmino che porta i bambini al campo. Ma per ampliare il progetto e poter far venire nuovi bambini occorrono altri operatori. Da soli non ce la facciamo». Parla, con passione e capacità di coinvolgere, Francesca Rebecchini. Lei è una delle coordinatrici dell' iniziativa, in famiglia il rugby si mangia a colazione. Ed anche Martino, vedendo i fratelli più grandi, si è buttato presto nella mischia. Cosi è nata l' idea di sperimentare l' «integrazione di bambini down nel gioco del rugby», in collaborazione con l' Associazione italiana persone Down, che garantisce la presenza degli operatori sociali. Seguono il bambino sul campo, gli parlano quando magari tende ad estraniarsi. «Il nostro compito? Quello pian piano di sparire» - racconta Simone Consegnati, che da quattro anni opera nell' associazione - I down arrivano a fare le cose, ma con i loro tempi. Il rugby? Sinceramente non sapevo nemmeno cosa fosse un pilone. È però lo sport più adatto perché non ci sono barriere». Cosa dicono gli allenatori ai bambini down? «Le stesse cose che diciamo agli altri - risponde Marco Iscaro, coordinatore del settore tecnico - Corri e non farti prendere se hai la palla, cerca di prendere l' avversario quando ce l' ha lui». Vinta la paura iniziale, comprensibile, di qualche mamma, il resto vien da sé. «Federico, ad esempio - rivela Simone - giorni fa è uscito tutto infangato e stanchissimo, mi ha guardato e mi ha detto: il rugby è fichissimo». La pratica di questo sport è chiaramente un mezzo per trasmettere «rigore, altruismo e disciplina». Partendo dall' abitudine di lavarsi e vestirsi da soli. «Qualche settimana fa - racconta la signora Rebecchini - Martino è andato a Treviso con la sua squadra. Viaggio lungo, pasti e pernotto in cameretta da quattro. Tutto da solo senza la famiglia». La sperimentazione, infatti, ha la finalità di «crescita o sviluppo del senso di autostima ed indipendenza al fine di contribuire ad un miglioramento generale di vita del bambino». Ma segna, di fatto, anche un' altra meta, ugualmente importante. Come svela Iscaro. «Gli altri bambini imparano ad accettare la diversità. Capiscono che il contributo che ognuno può dare è importante, in campo e fuori. I bambini sono più aperti degli adulti». Già. È fuori dal campo di rugby che la gente si mischia di meno. * * * IL COMMENTO Una frontiera appena esplorata Che il rugby fosse uno sport diverso lo dice anche la sua origine: sbocciato durante una partita di football sul prato di un illustre college inglese per il gesto folle, anarchico, disobbediente, di un sedicenne che aveva deciso di andare contro le regole, prendere il pallone in mano e scappare a perdifiato inseguito da compagni e avversari. Diverso, da sempre, perché si combatte dentro a rigide regole, perché si rispettano regole mai scritte, perché il concetto di squadra annichilisce quello di individualità. E allora il progetto dell' Unione Capitolina, che porta in mischia ragazzi diversamente abili e li vede giocare, integrarsi, migliorare la loro condizione, è solo l' approdo naturale di un modo di intendere il rugby. A Paganica all' ala giocava un ragazzo sordomuto e nessuno se ne accorgeva, se non quando l' arbitro interrompeva il gioco e lui volava indisturbato verso la meta. Con la Capitolina qualche anno fa si esibiva un ragazzo dislessico e giocava, si divertiva, si integrava, nello sport e nella vita. Adesso i bambini Down che è un piacere vederli scappar via con il pallone sottobraccio. La frontiera è appena esplorata. Rugby è bello perché è diverso. E in mischia, per fortuna, diventano tutti uguali.