zioudino
11-03-2015, 20:48
«Vuoi che sia sincero? Tu non sei nato ieri. Ieri sei morto. Un lutto, ecco cosa sei. Anzi, se vado in profondità, trovo qualcosa di più cattivo, ma forse ancora più sincero. Nel profondo, quel che penso di te è che non sei un mio progetto, non puoi esserlo: tu sei colui che ha distrutto il mio progetto. Sei un usurpatore, un assassino. Tu hai ucciso mio figlio».
Sembra uno scenario giudiziario, stile Gomorra, l’orizzonte di un reato, una colpa, un sequestro o un omicidio, dove c’è chi piange una morte innocente e chi si insuperbisce di un potere di offesa che ha eseguito senza pietà. E invece le cose non stanno proprio così. Chi è “morto” è il fantasma di un bambino “normale” come universalmente e riduttivamente questo aggettivo viene usato: l’attesa di una creatura che rispecchi tutti i parametri della salute, del progresso della crescita, della serenità nel seno della coppia che lo ha concepito. Colui che “vive”, invece, colui che è venuto al mondo è Francesco, una forza ancora più invasiva della natura, quella che dà gioia e senso del limite, che esalta ma non rassicura, che ubriaca di orgoglio ma angoscia per le difficoltà che aspetteranno i genitori. Come un calvario, forse, o un serto di fiori più colorato e variopinto di altri.
Dario Fani è il papà di un bimbo affetto dalla sindrome di Down, quella che gentilmente ti “offre” un cromosoma in più, e un carico di problemi, alterazioni fisiche e rischi per l’incolumità altrettanto pesante da sopportare e gestire.
Come riporta nel suo blog tiseguirofuoridallacqua.it lo stesso autore, «la sindrome di Down non è una malattia, concetto completamente diverso che implica in sé, tra l’altro, una possibile evoluzione verso la guarigione. La sindrome di Down è una condizione stabile della persona, una diversità (attenzione a non incasellarla come anormalità). È quindi scorretto definire una persona affetta da sD o malata di sD. La persona che ha la sD, di conseguenza, non è ritardata né handicappata ma ha una disabilità intellettiva. È errato chiamarla sinteticamente “persona Down”, espressione che la identifica totalmente con la sua condizione. Le persone con sindrome di Down sono prima di tutto donne, uomini o bambini con una propria personalità, interessi, talenti e punti deboli. La sD è una condizione che le caratterizza ma non le annulla nella loro specificità».
Tutto vero. Disperatamente vero. Una condizione (e una definizione) di grande tolleranza e apertura etica e cognitiva verso i diversamente-abili che non conforta sulle prime il padre, fino a spingerlo a dire: «Sì, il mio vero figlio tu lo hai soffocato, strangolato con il tuo cordone ombelicale. L’hai gettato giù da una rupe, schiacciato con il tuo minuscolo peso. Non sei solo nato in anticipo ma ti sei anche impossessato di una vita che non era tua. Hai scansato qualcuno che doveva esserci e che non c’è. Ti sei preso un posto che non ti spettava in questo mondo. Assassino e ladro».
Il libro di Dario Fani è un diario commosso e composto, struggente e lucido di un rapporto con un neonato che disillude e spiazza, che sembra fagocitare ogni alito di felicità con quel suo corpicino costretto ad alimentazioni forzate, alla tecnologia di salvaguardia delle sonde, a una immobilità dietro lo schermo opaco di una incubatrice che sa di serra dei perduti, e non di splendide orchidee, di vivaio di mostruosità e maledizioni, e non di battiti e respiri da svezzare, coccolare, proteggere. Ne vien fuori una scrittura agonica e agonistica, accelerata, angustiata, che porta a un regime concettuale terribile: di fronte a me la manifestazione di qualcosa di “guasto” venuto all’essere “senza libretto delle istruzioni”, quasi una paccottiglia umanamente scaduta, e io, rappresentante dell’equilibrio e della correttezza, dell’armonia del Dna e del giudizio razionale sulle cose e le persone.
Fino alla svolta: lo scrigno di cristallo dei marchingegni ospedalieri si spalanca e il primo contatto con gambette, cartilagini, occhi e polmoni che si sollevano fa avvenire il miracolo della corporeità, della paternità, del vero grembo della vita che è forse ugualmente lontano da cordoni ombelicali e tubi di ossigenazione, ma insiste, fiotta nella piena e compassionevole accettazione di ciò che siamo, e degli altri attraverso la nostra stessa fragilità.
Scatta allora un’altra lotta, non fratricida e repressiva, non un faccia a faccia o un violento oblio, ma una lotta appassionata e comune, duale ma non conflittuale: il bimbo deve farcela, deve mangiare, superare le crisi, arginare la sua debolezza, tonificare il suo piccolo organismo, ma con un padre che lo veglia, lo cerca, lo circonda di stimoli coraggiosi e di pensieri. La richiesta di perdono a un bambino, così duramente scacciato prima, si trasforma in un percorso che affratella e fa sentire più forti. Fino ad urlare al mondo che bisogna superare l’irrealtà di un vetro e non puntare il dito contro persone di cui non cogliamo la singolarità, l’unicità, la bellezza. Fino al punto da buttare all’aria garze e mascherine, pregiudizi, rabbie e timori, e abbeverarsi alla fonte di una famiglia non come le altre, ma più ricca e fertile delle altre, perché ha scacciato l’ombra della paura con il raggio luminoso di una verità: un amore senza ritegno, senza barriere, una pura cascata di alterità increspate di sorrisi e tenerezza.
Dario Fani è sociologo, esperto in comunicazione e formatore. Vive a Roma, dove lavora come progettista in ambito socio-sanitario. È consulente della Fondazione Fatebenefratelli per la ricerca e la formazione. “Ti seguirò fuori dall’acqua”, è il suo romanzo d’esordio.
Dario Fani “Ti seguirò fuori dall’acqua”
Fonte http://spettacoli.ilmessaggero.it/libri/ti-seguiro-fuori-dallacqua-fani-libro-down/1230152.shtml
Sembra uno scenario giudiziario, stile Gomorra, l’orizzonte di un reato, una colpa, un sequestro o un omicidio, dove c’è chi piange una morte innocente e chi si insuperbisce di un potere di offesa che ha eseguito senza pietà. E invece le cose non stanno proprio così. Chi è “morto” è il fantasma di un bambino “normale” come universalmente e riduttivamente questo aggettivo viene usato: l’attesa di una creatura che rispecchi tutti i parametri della salute, del progresso della crescita, della serenità nel seno della coppia che lo ha concepito. Colui che “vive”, invece, colui che è venuto al mondo è Francesco, una forza ancora più invasiva della natura, quella che dà gioia e senso del limite, che esalta ma non rassicura, che ubriaca di orgoglio ma angoscia per le difficoltà che aspetteranno i genitori. Come un calvario, forse, o un serto di fiori più colorato e variopinto di altri.
Dario Fani è il papà di un bimbo affetto dalla sindrome di Down, quella che gentilmente ti “offre” un cromosoma in più, e un carico di problemi, alterazioni fisiche e rischi per l’incolumità altrettanto pesante da sopportare e gestire.
Come riporta nel suo blog tiseguirofuoridallacqua.it lo stesso autore, «la sindrome di Down non è una malattia, concetto completamente diverso che implica in sé, tra l’altro, una possibile evoluzione verso la guarigione. La sindrome di Down è una condizione stabile della persona, una diversità (attenzione a non incasellarla come anormalità). È quindi scorretto definire una persona affetta da sD o malata di sD. La persona che ha la sD, di conseguenza, non è ritardata né handicappata ma ha una disabilità intellettiva. È errato chiamarla sinteticamente “persona Down”, espressione che la identifica totalmente con la sua condizione. Le persone con sindrome di Down sono prima di tutto donne, uomini o bambini con una propria personalità, interessi, talenti e punti deboli. La sD è una condizione che le caratterizza ma non le annulla nella loro specificità».
Tutto vero. Disperatamente vero. Una condizione (e una definizione) di grande tolleranza e apertura etica e cognitiva verso i diversamente-abili che non conforta sulle prime il padre, fino a spingerlo a dire: «Sì, il mio vero figlio tu lo hai soffocato, strangolato con il tuo cordone ombelicale. L’hai gettato giù da una rupe, schiacciato con il tuo minuscolo peso. Non sei solo nato in anticipo ma ti sei anche impossessato di una vita che non era tua. Hai scansato qualcuno che doveva esserci e che non c’è. Ti sei preso un posto che non ti spettava in questo mondo. Assassino e ladro».
Il libro di Dario Fani è un diario commosso e composto, struggente e lucido di un rapporto con un neonato che disillude e spiazza, che sembra fagocitare ogni alito di felicità con quel suo corpicino costretto ad alimentazioni forzate, alla tecnologia di salvaguardia delle sonde, a una immobilità dietro lo schermo opaco di una incubatrice che sa di serra dei perduti, e non di splendide orchidee, di vivaio di mostruosità e maledizioni, e non di battiti e respiri da svezzare, coccolare, proteggere. Ne vien fuori una scrittura agonica e agonistica, accelerata, angustiata, che porta a un regime concettuale terribile: di fronte a me la manifestazione di qualcosa di “guasto” venuto all’essere “senza libretto delle istruzioni”, quasi una paccottiglia umanamente scaduta, e io, rappresentante dell’equilibrio e della correttezza, dell’armonia del Dna e del giudizio razionale sulle cose e le persone.
Fino alla svolta: lo scrigno di cristallo dei marchingegni ospedalieri si spalanca e il primo contatto con gambette, cartilagini, occhi e polmoni che si sollevano fa avvenire il miracolo della corporeità, della paternità, del vero grembo della vita che è forse ugualmente lontano da cordoni ombelicali e tubi di ossigenazione, ma insiste, fiotta nella piena e compassionevole accettazione di ciò che siamo, e degli altri attraverso la nostra stessa fragilità.
Scatta allora un’altra lotta, non fratricida e repressiva, non un faccia a faccia o un violento oblio, ma una lotta appassionata e comune, duale ma non conflittuale: il bimbo deve farcela, deve mangiare, superare le crisi, arginare la sua debolezza, tonificare il suo piccolo organismo, ma con un padre che lo veglia, lo cerca, lo circonda di stimoli coraggiosi e di pensieri. La richiesta di perdono a un bambino, così duramente scacciato prima, si trasforma in un percorso che affratella e fa sentire più forti. Fino ad urlare al mondo che bisogna superare l’irrealtà di un vetro e non puntare il dito contro persone di cui non cogliamo la singolarità, l’unicità, la bellezza. Fino al punto da buttare all’aria garze e mascherine, pregiudizi, rabbie e timori, e abbeverarsi alla fonte di una famiglia non come le altre, ma più ricca e fertile delle altre, perché ha scacciato l’ombra della paura con il raggio luminoso di una verità: un amore senza ritegno, senza barriere, una pura cascata di alterità increspate di sorrisi e tenerezza.
Dario Fani è sociologo, esperto in comunicazione e formatore. Vive a Roma, dove lavora come progettista in ambito socio-sanitario. È consulente della Fondazione Fatebenefratelli per la ricerca e la formazione. “Ti seguirò fuori dall’acqua”, è il suo romanzo d’esordio.
Dario Fani “Ti seguirò fuori dall’acqua”
Fonte http://spettacoli.ilmessaggero.it/libri/ti-seguiro-fuori-dallacqua-fani-libro-down/1230152.shtml