paola
05-11-2013, 01:54
Vi incollo l'intervista apparsa su un giornale del canton Ticino gentilmente inviatami dal dottore.
atgabbes (associazione dei genitori ed amici dei bambini bisognosi di educazione speciale) del Ticino (CH)
ha pubblicato la seguente intervista sul proprio BOLLETTINO ESTATE 2013
INTERVISTA A UMBERTO FORMICA: DA MEDICO A CONSULENTE PER LE FAMIGLIE
Cosa è bene sapere quando si accompagna una persona in situazione di handicap? Il titolo vero della conferenza organizzata da atgabbes e tenuta dal dottor Umberto Formica il 10 aprile 2013 presso il Canvetto Luganese era “Cosa è bene sapere sulla Sindrome di Down”.
La nostra declinazione più generale, è frutto dei contenuti stessi dell’interessante apporto del relatore, che ha saputo unire, grazie alla sua lunga e ricca esperienza, aspetti medici e prettamente scientifici, a quelli più umanistici legati al’ascolto, alla considerazione della persona in quanto soggetto completo di storia, famiglia, origini, eccetera, non dimenticando gli aspetti della partecipazione sociale, come costruzione di una cultura umana e inclusiva. Seguendo il tema portante di questo bollettino estivo, anche la testimonianza del Dottor Formica mette al centro il fondamentale patto educativo esistente tra genitori/familiari e professionisti: un dialogo necessario, che deve avere l’obiettivo comune del benessere della persona in situazione di handicap, intesa come percorso di crescita, di progetto di vita, di autonomia, oltre che di benessere da un punto di vista medico-salutare. Non riportiamo in questa rubrica una relazione della conferenza, ma ospitiamo la testimonianza del professore, che gentilmente, seguito all’incontro di aprile, ha rilasciato quest’intervista per noi. (Per chi fosse interessato a conoscere i contenuti della conferenza più specifica sugli aspetti medici legati alla Sindrome di Down, può rivolgersi in segretariato atgabbes).
Un’informazione specifica ai professionisti
“Dal 1998 collaboro con l’Associazione Genitori e Persone con Sindrome di Down (AGPD Onlus) di Milano, relativamente ai problemi medici dei bambini con trisomia 21. Nel corso di questa mia attività ho maturato una specifica esperienza che mi ha portato a scrivere nell’anno 2000 un libro su “I controlli di salute dei bambini con Sindrome di Down” a cui nel 2007 ne ha fatto seguito un altro dal titolo: “Aspetti medici della Sindrome di Down – dal concepimento all’età adulta”, che sostenuto anche dalla Direzione Generale della Sanità della Regione Lombardia, è stato distribuito da AGPD a tutti i pediatri e ai medici di base della Regione. In queste pubblicazioni ho sempre ribadito che lo scopo era quello di fornire ai vari professionisti coinvolti nell’assistenza delle persone con Sindrome di Down (SD), uno strumento di consultazione semplice che permettesse di affrontare in modo sistematico e rigorosamente scientifico tutti gli aspetti di salute a cui possono andare incontro con maggior frequenza i bambini, gli adolescenti e gli adulti con questa sindrome, senza per questo farne una categoria particolare di malati. Infatti i quadri clinici e le relative terapie che si presentano nelle persone con trisomia 21 non differiscono dalle situazioni che interessano il resto della popolazione.
Malgrado la raccomandazione rivolta ai genitori di lasciare questi strumenti ai medici curanti, perché i loro figli venissero seguiti al meglio secondo precise linee guida, molti hanno voluto leggerli, spinti dal desiderio di approfondire le loro conoscenze. Talora questa consultazione, ha invece aumentato ansie e preoccupazioni, creando la convinzione che gli eventi patologici descritti fossero quasi ineluttabili. Essi hanno così polarizzato l’attenzione sugli aspetti medici, piuttosto che su quelli educativi e relazionali che la SD comporta. A questo si aggiungono altri fattori importanti come la consuetudine consolidata, nella donna che aspetta un figlio, di ricercare quasi esclusivamente la SD nella diagnostica prenatale, come se fosse l’unico evento medico indesiderato da scongiurare”.
Il fondamentale rapporto tra professionista e genitori
“Con il tempo, nel rapporto con i genitori, sia direttamente che per corrispondenza, ho percepito nelle
famiglie la profonda esigenza di discutere con il consulente medico, aldilà dei problemi di salute, anche altri
aspetti della sindrome. I genitori, una volta fatta l’esperienza diretta di un figlio con SD, maturano
gradualmente la concreta consapevolezza che il problema medico, suggerito da quanto l’immaginario
collettivo genericamente propone sulla base di stereotipi e di sentito dire, rimane solo sullo sfondo di un
progetto di vita ben più incisivo e coinvolgente.
Da queste premesse mi sono convinto che la mia consulenza alle famiglie, non può e non deve limitarsi ai
pur importanti problemi di salute ma che, l’attenzione a questi, è solo la premessa indispensabile per
orientare la vita delle persone con SD e le loro famiglie a comprendere meglio la globalità e
l’interconnessione dei problemi e di conseguenza vivere questa non facile esperienza di vita in una
prospettiva più serena rispetto a quella che generalmente si prospetta alla nascita.
Deve essere inoltre enfatizzato che, da oltre un decennio, sia sul piano educativo che relazionale, sono stati
fatti notevoli progressi per l’inclusione delle persone con SD nella vita sociale, con piena dignità, nel rispetto
delle loro specificità.
Non trascuro che questo lavoro non può prescindere dallo scambio costante di esperienze con diversi
professionisti, pediatri e medici di base, psicologi, psichiatri, psico-motricisti, pedagogisti ed educatori
scolastici, che però devono umilmente considerarsi solo strumenti il cui compito, certamente fondamentale,
è quello di affiancare le famiglie e la persona con SD. Il senso del loro operare, in un lungo percorso di vita, è
quello di aiutare l’individuo, passo dopo passo, a realizzarsi come persona autonoma e rispettata, in una
società che spesso, più o meno volontariamente è emarginante, aldilà delle buone intenzioni. Chi si pone al
servizio delle persone con SD, deve pertanto mobilitare tutte le sue energie pur avendo la consapevolezza
che il protagonista di questo impegnativo lavoro è il bambino, il ragazzo e la ragazza, l’adulto con la SD, non
colui che di volta in volta lo accompagna a dare il meglio di sé.
Pertanto, sulla base dell’esperienza, il mio intervento/colloquio si articola avendo presenti tre direttive:
1) rilievo obbiettivo dello stato di salute nel preciso momento della consultazione per dare uno strumento su
cui basarsi in relazione agli impegni e alle attività svolte dal loro figlio, e di conseguenza sulle prevenzioni e
sulle cure necessarie ad affrontare le eventuali emergenze;
2) ascolto attento del racconto famigliare o, quando possibile, anche personale di chi ha la sindrome, per
rendermi conto del posto che la sua presenza occupa nell’ambito della famiglia. In pratica il vissuto dei
genitori, dei fratelli, e degli altri adulti che circondano questa persona diversamente dotata;
3) sintesi del colloquio e proposte operative che non sovraccarichino le famiglie di impegni gravosi e talora
inefficaci, con l’invito ad affrontare realisticamente i problemi emergenti, al fine di permettere alla persona
con SD di vivere dignitosamente la sua vita in relazione alle proprie specifiche esigenze e capacità”.
L’accompagnamento nelle varie fasce d’età
“Mi si chiede quali sono le domande ricorrenti da parte delle famiglie che desiderano un consulto medico.
L’intervento è vario poiché molto dipende dall’età della persona con la sindrome.
Alla nascita è indispensabile un bilancio di salute completo per affrontare le situazioni che richiedono o una
osservazione costante o addirittura un intervento tempestivo come la cardiopatia congenita, le
malformazioni del tubo digerente, la cataratta congenita e così via, con frequenze e modalità diverse. Nel tempo i problemi medici trovano un loro assestamento e sono più frequenti i problemi comportamentali in ambito scolastico e relazionale in cui il medico si deve necessariamente avvalere di altri professionisti. Oggi lo sviluppo delle scienze mediche, psicologiche e sociologiche propone l’ideale di una sempre più piena riabilitazione per cui l’intervento medico, pur presente e vigile, deve lasciare un posto preminente alle scienze che includono completamente gli individui nella società.
Questa consapevolezza si fa ben presente nell’adolescenza quando la persona con SD si trova nella necessità di affrontare un mondo per lui diverso, in cui vengono meno i riferimenti precedenti, perché i suoi coetanei, avendo problemi loro, non sono più attenti come prima al vissuto di chi è in difficoltà. È questo il momento di essere accanto alla famiglia per rassicurarla che situazioni di disagio non dipendono da uno stato di salute che si è venuto deteriorando, e per invitarla ad avviare il lavoro necessario per far raggiungere alla persona con SD il massimo di autonomia. In questo le Associazioni sono importanti se non creano per le ragazze e i ragazzi un ghetto chiuso. Infatti, le attività educative si devono svolgere nel contesto di ambienti in cui siano presenti anche le situazioni che siamo abituati a definire di “normalità psicofisica”. Inoltre il coinvolgimento dei genitori che accompagnano i loro figli in questo non facile percorso, è foriero di scambi e di esperienze che permettono il superamento e, spesso, la soluzione dei problemi individuali.
Altro problema non indifferente è quello della consapevolezza di chi è portatore della sindrome, adolescente o adulto, quando si rende conto delle difficoltà che deve affrontare per essere autonomo, e di questo vuole parlare con il medico senza intermediari. Certo questa consapevolezza non è di tutti e la domanda che più di frequente viene posta è: “quando mi togli questo cromosoma in più”? Ovviamente oggi, e chissà se sarà mai possibile, la risposta non c’è. Tuttavia esiste il dovere di far presente che la ricerca fa di tutto per eliminare alcune tendenze negative della sindrome e che bisogna aver fiducia nella scienza, anche se i tempi sono lunghi e che il loro impegno personale è fondamentale per raggiungere risultati altrimenti impossibili. Inserire queste persone in un ambiente gratificante e adatto alle loro capacità e sensibilità è il massimo che possiamo fare.
L’attenzione sarà sempre più focalizzata sulle persone adulte, sia per la loro crescente prevalenza numerica rispetto ai bambini con la SD, sia perché la loro presenza porrà alla società interrogativi per una integrazione non esclusivamente di tipo assistenziale. Infatti, a differenza del passato, in cui l’istituzionalizzazione era la regola, la presenza di queste persone, pur con le loro peculiarità, nella scuola e nel lavoro, hanno reso consapevoli cittadini e istituzioni che è necessario prendere coscienza che il rispetto della loro dignità come persone, invece di essere un peso, deve essere considerata un’opportunità per tutti, al fine di favorire lo sviluppo di una società solidale.
Certamente non esiste la bacchetta magica, né individuale né collettiva, che educhi la società a valutare come una risorsa “umana” la persona con handicap. Dobbiamo allora rifugiarci nel proprio particolare e rinunciare ad ogni intervento che ci ricordi di essere tutti uomini con gli stessi diritti? Certamente no! Oggi la società è talmente complessa che non bastano più le relazioni immediate e libere delle singole persone che si limitano a fare qualche intervento sporadico e volontario ma dobbiamo tutti, secondo le nostre attitudini, responsabilità, competenze, cercare e risanare le condizioni economiche, sociali, politiche della povertà e dell’ingiustizia. Questo non vuol dire concedere importanza esclusiva agli interventi tecnici, scientifici e legislativi, trascurando l’insostituibile apporto dell’impegno personale. Il tempo dell’umanizzazione dei rapporti con e per i diversi non si deve considerare finito, altrimenti finisce l’Umanità, con la U maiuscola”.
Dott. Umberto Formica
atgabbes (associazione dei genitori ed amici dei bambini bisognosi di educazione speciale) del Ticino (CH)
ha pubblicato la seguente intervista sul proprio BOLLETTINO ESTATE 2013
INTERVISTA A UMBERTO FORMICA: DA MEDICO A CONSULENTE PER LE FAMIGLIE
Cosa è bene sapere quando si accompagna una persona in situazione di handicap? Il titolo vero della conferenza organizzata da atgabbes e tenuta dal dottor Umberto Formica il 10 aprile 2013 presso il Canvetto Luganese era “Cosa è bene sapere sulla Sindrome di Down”.
La nostra declinazione più generale, è frutto dei contenuti stessi dell’interessante apporto del relatore, che ha saputo unire, grazie alla sua lunga e ricca esperienza, aspetti medici e prettamente scientifici, a quelli più umanistici legati al’ascolto, alla considerazione della persona in quanto soggetto completo di storia, famiglia, origini, eccetera, non dimenticando gli aspetti della partecipazione sociale, come costruzione di una cultura umana e inclusiva. Seguendo il tema portante di questo bollettino estivo, anche la testimonianza del Dottor Formica mette al centro il fondamentale patto educativo esistente tra genitori/familiari e professionisti: un dialogo necessario, che deve avere l’obiettivo comune del benessere della persona in situazione di handicap, intesa come percorso di crescita, di progetto di vita, di autonomia, oltre che di benessere da un punto di vista medico-salutare. Non riportiamo in questa rubrica una relazione della conferenza, ma ospitiamo la testimonianza del professore, che gentilmente, seguito all’incontro di aprile, ha rilasciato quest’intervista per noi. (Per chi fosse interessato a conoscere i contenuti della conferenza più specifica sugli aspetti medici legati alla Sindrome di Down, può rivolgersi in segretariato atgabbes).
Un’informazione specifica ai professionisti
“Dal 1998 collaboro con l’Associazione Genitori e Persone con Sindrome di Down (AGPD Onlus) di Milano, relativamente ai problemi medici dei bambini con trisomia 21. Nel corso di questa mia attività ho maturato una specifica esperienza che mi ha portato a scrivere nell’anno 2000 un libro su “I controlli di salute dei bambini con Sindrome di Down” a cui nel 2007 ne ha fatto seguito un altro dal titolo: “Aspetti medici della Sindrome di Down – dal concepimento all’età adulta”, che sostenuto anche dalla Direzione Generale della Sanità della Regione Lombardia, è stato distribuito da AGPD a tutti i pediatri e ai medici di base della Regione. In queste pubblicazioni ho sempre ribadito che lo scopo era quello di fornire ai vari professionisti coinvolti nell’assistenza delle persone con Sindrome di Down (SD), uno strumento di consultazione semplice che permettesse di affrontare in modo sistematico e rigorosamente scientifico tutti gli aspetti di salute a cui possono andare incontro con maggior frequenza i bambini, gli adolescenti e gli adulti con questa sindrome, senza per questo farne una categoria particolare di malati. Infatti i quadri clinici e le relative terapie che si presentano nelle persone con trisomia 21 non differiscono dalle situazioni che interessano il resto della popolazione.
Malgrado la raccomandazione rivolta ai genitori di lasciare questi strumenti ai medici curanti, perché i loro figli venissero seguiti al meglio secondo precise linee guida, molti hanno voluto leggerli, spinti dal desiderio di approfondire le loro conoscenze. Talora questa consultazione, ha invece aumentato ansie e preoccupazioni, creando la convinzione che gli eventi patologici descritti fossero quasi ineluttabili. Essi hanno così polarizzato l’attenzione sugli aspetti medici, piuttosto che su quelli educativi e relazionali che la SD comporta. A questo si aggiungono altri fattori importanti come la consuetudine consolidata, nella donna che aspetta un figlio, di ricercare quasi esclusivamente la SD nella diagnostica prenatale, come se fosse l’unico evento medico indesiderato da scongiurare”.
Il fondamentale rapporto tra professionista e genitori
“Con il tempo, nel rapporto con i genitori, sia direttamente che per corrispondenza, ho percepito nelle
famiglie la profonda esigenza di discutere con il consulente medico, aldilà dei problemi di salute, anche altri
aspetti della sindrome. I genitori, una volta fatta l’esperienza diretta di un figlio con SD, maturano
gradualmente la concreta consapevolezza che il problema medico, suggerito da quanto l’immaginario
collettivo genericamente propone sulla base di stereotipi e di sentito dire, rimane solo sullo sfondo di un
progetto di vita ben più incisivo e coinvolgente.
Da queste premesse mi sono convinto che la mia consulenza alle famiglie, non può e non deve limitarsi ai
pur importanti problemi di salute ma che, l’attenzione a questi, è solo la premessa indispensabile per
orientare la vita delle persone con SD e le loro famiglie a comprendere meglio la globalità e
l’interconnessione dei problemi e di conseguenza vivere questa non facile esperienza di vita in una
prospettiva più serena rispetto a quella che generalmente si prospetta alla nascita.
Deve essere inoltre enfatizzato che, da oltre un decennio, sia sul piano educativo che relazionale, sono stati
fatti notevoli progressi per l’inclusione delle persone con SD nella vita sociale, con piena dignità, nel rispetto
delle loro specificità.
Non trascuro che questo lavoro non può prescindere dallo scambio costante di esperienze con diversi
professionisti, pediatri e medici di base, psicologi, psichiatri, psico-motricisti, pedagogisti ed educatori
scolastici, che però devono umilmente considerarsi solo strumenti il cui compito, certamente fondamentale,
è quello di affiancare le famiglie e la persona con SD. Il senso del loro operare, in un lungo percorso di vita, è
quello di aiutare l’individuo, passo dopo passo, a realizzarsi come persona autonoma e rispettata, in una
società che spesso, più o meno volontariamente è emarginante, aldilà delle buone intenzioni. Chi si pone al
servizio delle persone con SD, deve pertanto mobilitare tutte le sue energie pur avendo la consapevolezza
che il protagonista di questo impegnativo lavoro è il bambino, il ragazzo e la ragazza, l’adulto con la SD, non
colui che di volta in volta lo accompagna a dare il meglio di sé.
Pertanto, sulla base dell’esperienza, il mio intervento/colloquio si articola avendo presenti tre direttive:
1) rilievo obbiettivo dello stato di salute nel preciso momento della consultazione per dare uno strumento su
cui basarsi in relazione agli impegni e alle attività svolte dal loro figlio, e di conseguenza sulle prevenzioni e
sulle cure necessarie ad affrontare le eventuali emergenze;
2) ascolto attento del racconto famigliare o, quando possibile, anche personale di chi ha la sindrome, per
rendermi conto del posto che la sua presenza occupa nell’ambito della famiglia. In pratica il vissuto dei
genitori, dei fratelli, e degli altri adulti che circondano questa persona diversamente dotata;
3) sintesi del colloquio e proposte operative che non sovraccarichino le famiglie di impegni gravosi e talora
inefficaci, con l’invito ad affrontare realisticamente i problemi emergenti, al fine di permettere alla persona
con SD di vivere dignitosamente la sua vita in relazione alle proprie specifiche esigenze e capacità”.
L’accompagnamento nelle varie fasce d’età
“Mi si chiede quali sono le domande ricorrenti da parte delle famiglie che desiderano un consulto medico.
L’intervento è vario poiché molto dipende dall’età della persona con la sindrome.
Alla nascita è indispensabile un bilancio di salute completo per affrontare le situazioni che richiedono o una
osservazione costante o addirittura un intervento tempestivo come la cardiopatia congenita, le
malformazioni del tubo digerente, la cataratta congenita e così via, con frequenze e modalità diverse. Nel tempo i problemi medici trovano un loro assestamento e sono più frequenti i problemi comportamentali in ambito scolastico e relazionale in cui il medico si deve necessariamente avvalere di altri professionisti. Oggi lo sviluppo delle scienze mediche, psicologiche e sociologiche propone l’ideale di una sempre più piena riabilitazione per cui l’intervento medico, pur presente e vigile, deve lasciare un posto preminente alle scienze che includono completamente gli individui nella società.
Questa consapevolezza si fa ben presente nell’adolescenza quando la persona con SD si trova nella necessità di affrontare un mondo per lui diverso, in cui vengono meno i riferimenti precedenti, perché i suoi coetanei, avendo problemi loro, non sono più attenti come prima al vissuto di chi è in difficoltà. È questo il momento di essere accanto alla famiglia per rassicurarla che situazioni di disagio non dipendono da uno stato di salute che si è venuto deteriorando, e per invitarla ad avviare il lavoro necessario per far raggiungere alla persona con SD il massimo di autonomia. In questo le Associazioni sono importanti se non creano per le ragazze e i ragazzi un ghetto chiuso. Infatti, le attività educative si devono svolgere nel contesto di ambienti in cui siano presenti anche le situazioni che siamo abituati a definire di “normalità psicofisica”. Inoltre il coinvolgimento dei genitori che accompagnano i loro figli in questo non facile percorso, è foriero di scambi e di esperienze che permettono il superamento e, spesso, la soluzione dei problemi individuali.
Altro problema non indifferente è quello della consapevolezza di chi è portatore della sindrome, adolescente o adulto, quando si rende conto delle difficoltà che deve affrontare per essere autonomo, e di questo vuole parlare con il medico senza intermediari. Certo questa consapevolezza non è di tutti e la domanda che più di frequente viene posta è: “quando mi togli questo cromosoma in più”? Ovviamente oggi, e chissà se sarà mai possibile, la risposta non c’è. Tuttavia esiste il dovere di far presente che la ricerca fa di tutto per eliminare alcune tendenze negative della sindrome e che bisogna aver fiducia nella scienza, anche se i tempi sono lunghi e che il loro impegno personale è fondamentale per raggiungere risultati altrimenti impossibili. Inserire queste persone in un ambiente gratificante e adatto alle loro capacità e sensibilità è il massimo che possiamo fare.
L’attenzione sarà sempre più focalizzata sulle persone adulte, sia per la loro crescente prevalenza numerica rispetto ai bambini con la SD, sia perché la loro presenza porrà alla società interrogativi per una integrazione non esclusivamente di tipo assistenziale. Infatti, a differenza del passato, in cui l’istituzionalizzazione era la regola, la presenza di queste persone, pur con le loro peculiarità, nella scuola e nel lavoro, hanno reso consapevoli cittadini e istituzioni che è necessario prendere coscienza che il rispetto della loro dignità come persone, invece di essere un peso, deve essere considerata un’opportunità per tutti, al fine di favorire lo sviluppo di una società solidale.
Certamente non esiste la bacchetta magica, né individuale né collettiva, che educhi la società a valutare come una risorsa “umana” la persona con handicap. Dobbiamo allora rifugiarci nel proprio particolare e rinunciare ad ogni intervento che ci ricordi di essere tutti uomini con gli stessi diritti? Certamente no! Oggi la società è talmente complessa che non bastano più le relazioni immediate e libere delle singole persone che si limitano a fare qualche intervento sporadico e volontario ma dobbiamo tutti, secondo le nostre attitudini, responsabilità, competenze, cercare e risanare le condizioni economiche, sociali, politiche della povertà e dell’ingiustizia. Questo non vuol dire concedere importanza esclusiva agli interventi tecnici, scientifici e legislativi, trascurando l’insostituibile apporto dell’impegno personale. Il tempo dell’umanizzazione dei rapporti con e per i diversi non si deve considerare finito, altrimenti finisce l’Umanità, con la U maiuscola”.
Dott. Umberto Formica