aledario
26-02-2013, 14:39
Un libro, quello da cui è tratto questo brano ("Nessuno sa di noi" - Simona Sparaco, Giunti Ed.), che affronta con cruda onestà ma anche con tanta delicatezza il tema della dolorosa scelta dell'aborto terapeutico, del travaglio che l'accompagna, della inevitabile sofferenza, dei sensi di colpa e della possibilità di sopravvivenza e di rinascita.
Credo che meriti un confronto da parte di chi in un modo o nell'altro, ha dovuto affrontare i temi e sentimenti che accompagnano sempre chi ha a che fare con il mondo della disabilità.
Il brano è all'inizio del romanzo... e anticipa a mo' di profezia ciò con cui Luce, la voce narrante, dovrà confrontarsi di lì a breve...
"La piscina ha il potere di farmi diventare ancora più insofferente verso il genere umano. Per continuare a nuotare, dovevo ignorare le altre presenze. Non pensare ai loro sudori, alle loro salive, alle creme, al grasso dei capelli e della pelle che colano e si mischiano nell’acqua. Dovevo fingere di essere sola.
Molto spesso, al termine delle mie bracciate, quando il cuore mi diceva: «Rallenta, hai trentacinque anni, e i figli la tua specie vorrebbe che si facessero a venti», incontravo Teodoro, un uomo con la sindrome di Down.
Tutti si rivolgevano a lui come se fosse ancora un bambino, me compresa, eppure siamo più o meno coetanei.
[…]
Nessuno mi ha mai guardata come mi guardava Teodoro. I suoi occhi intensi, analitici, non avevano nulla dell’innocenza di un bambino.
[…] Nadia, la mia vicina di spogliatoio, appena poteva mi assediava di chiacchiere e pettegolezzi.
«Ma hai visto, come ti fissa quel Teodoro lì?»
Il più delle volte l’ascoltavo a malapena, senza neanche risponderle.
«Luce, scusa… Ma tu pensi che abbiano i nostri stessi impulsi?»
Spesso la ignoravo, inorridita.
«Perché sai, capisco che tra loro si fidanzino pure, però se non ne incontra una che gli piace, come fa? Una come lui, intendo. Poveretto. Anche se ho letto da qualche parte che sono sterili. Le femmine al cinquanta per cento, i maschi tutti. Vedi, la natura fa uno sbaglio, ma poi in qualche modo cerca di rimediare.»
Quel giorno l’ho guardata dritta in faccia e, mossa da un rabbioso istinto pedagogico, ho ritenuto fosse giusto aggiornarla: «Teodoro si è lasciato pochi mesi fa con la ragazza e ne troverà sicuramente un’altra» ho detto. «Ha anche un lavoro. È un ragazzo in gamba. Se qualche volta ci parlassi, ti faresti meno domande inutili.»
Nadia non sapeva niente di me, né poteva sospettare che dietro la donna riservata con cui condivideva le docce ci fosse una giornalista abituata per mestiere all’ascolto. Ma sapeva che ero incinta, la pancia era ormai talmente evidente che sarebbe stato ridicolo spacciarla per una colite. E il mio unico punto scoperto era anche il solo dove lei potesse colpire.
Fedele al suo stereotipo, ha reagito in maniera subdola e aggressiva, come ci si aspetta da una quarantacinquenne che racconta alle colleghe di acquagym quante volte al mese cornifica il marito. «Sai che oggigiorno con l’amniocentesi si può scoprire se aspetti un figlio con la sindrome di Down oppure no?» ha proseguito, accennando di sfuggita alla mia pancia, ma il tempo sufficiente a scatenarmi un attacco di nausea. «Tu la farai?» ha aggiunto, insoddisfatta. «Dopo i trentacinque te la passa lo Stato, non te l’hanno detto?»
«Stiamo valutando» le ho risposto, infilando alla rinfusa tutte le mie cose nella borsa di tela: l’accappatoio, il costume intero, i due asciugamani, le ciabattine infradito, i prodotti per la doccia.
«Se uno la fa, è perché lo vuole sapere. E se lo vuole sapere, è perché vuole avere la possibilità di scegliere, giusto?»
«O di prepararsi al futuro che l’aspetta» ho ribattuto, chiudendo con uno strattone la zip della borsa, e accingendomi a uscire dallo spogliatoio con i capelli ancora bagnati.
«Non ci si può preparare a una cosa del genere» ha commentato Nadia, assottigliando le labbra in un ghigno compiaciuto.
Non credo ci fosse solo sadismo nelle sue parole. C’era qualcosa di più. Qualcosa di terribile, forse, di orribilmente umano. Una specie di tabù su cui secoli fa è stato posto il sigillo dell’inconfessabile, perché rischiava di rivelare a noi stessi la nostra più nascosta natura. Una verità che ci avrebbe impedito di evolverci, di imparare a mentire, di convivere in società civili. Anche se scelte per offuscare i pensieri di una donna incinta, le parole di Nadia venivano da lontano, dall’origine del tempo. Erano imprigionate nell’ambra, stampate nella roccia come i resti di un fossile. Erano la preistoria, ieri, un attimo fa.
Mentre m’infilavo la giacca, ha voluto assestare un ultimo colpo: «Non posso immaginare» ha sussurrato «qualcuno che tolga la vita a una creatura come Teodoro».
Sentivo formicolarmi la gola e le guance, e provavo disgusto per l’espressione di simulato turbamento che mi contrapponeva. Per le sue unghie lunghe, appuntite, laccate di un color prugna marcia. Per i costumi griffati e la cuffia di gomma bianca a forma di bouquet. Per il trucco vistoso e resistente all’acqua.
«È difficile immaginare un bambino che non è mai venuto al mondo» ho concluso, prima di voltarmi senza salutarla e avviarmi verso l’uscita. […]
Ho varcato la porta dello spogliatoio con i crampi allo stomaco. Ho salito i gradini che portano all’atrio e salutato con un cenno la ragazza alla reception. L’aria fuori dall’edificio grigio e rettangolare era umida e penetrante. Affrettandomi alla macchina, mi sono riparata i capelli con il cappuccio della tuta. Una volta dentro, ho respirato a fondo, e ho sentito un dolore atavico risvegliarsi da qualche parte del mio corpo, propagarsi verso l’utero, aumentare fino a trasformarsi in una serie di piccole contrazioni. Brevi attentati ripetuti che hanno creato più paura che vera sofferenza."
tratto da "Nessuno sa di noi" - Simona Sparaco, Giunti Ed.
Credo che meriti un confronto da parte di chi in un modo o nell'altro, ha dovuto affrontare i temi e sentimenti che accompagnano sempre chi ha a che fare con il mondo della disabilità.
Il brano è all'inizio del romanzo... e anticipa a mo' di profezia ciò con cui Luce, la voce narrante, dovrà confrontarsi di lì a breve...
"La piscina ha il potere di farmi diventare ancora più insofferente verso il genere umano. Per continuare a nuotare, dovevo ignorare le altre presenze. Non pensare ai loro sudori, alle loro salive, alle creme, al grasso dei capelli e della pelle che colano e si mischiano nell’acqua. Dovevo fingere di essere sola.
Molto spesso, al termine delle mie bracciate, quando il cuore mi diceva: «Rallenta, hai trentacinque anni, e i figli la tua specie vorrebbe che si facessero a venti», incontravo Teodoro, un uomo con la sindrome di Down.
Tutti si rivolgevano a lui come se fosse ancora un bambino, me compresa, eppure siamo più o meno coetanei.
[…]
Nessuno mi ha mai guardata come mi guardava Teodoro. I suoi occhi intensi, analitici, non avevano nulla dell’innocenza di un bambino.
[…] Nadia, la mia vicina di spogliatoio, appena poteva mi assediava di chiacchiere e pettegolezzi.
«Ma hai visto, come ti fissa quel Teodoro lì?»
Il più delle volte l’ascoltavo a malapena, senza neanche risponderle.
«Luce, scusa… Ma tu pensi che abbiano i nostri stessi impulsi?»
Spesso la ignoravo, inorridita.
«Perché sai, capisco che tra loro si fidanzino pure, però se non ne incontra una che gli piace, come fa? Una come lui, intendo. Poveretto. Anche se ho letto da qualche parte che sono sterili. Le femmine al cinquanta per cento, i maschi tutti. Vedi, la natura fa uno sbaglio, ma poi in qualche modo cerca di rimediare.»
Quel giorno l’ho guardata dritta in faccia e, mossa da un rabbioso istinto pedagogico, ho ritenuto fosse giusto aggiornarla: «Teodoro si è lasciato pochi mesi fa con la ragazza e ne troverà sicuramente un’altra» ho detto. «Ha anche un lavoro. È un ragazzo in gamba. Se qualche volta ci parlassi, ti faresti meno domande inutili.»
Nadia non sapeva niente di me, né poteva sospettare che dietro la donna riservata con cui condivideva le docce ci fosse una giornalista abituata per mestiere all’ascolto. Ma sapeva che ero incinta, la pancia era ormai talmente evidente che sarebbe stato ridicolo spacciarla per una colite. E il mio unico punto scoperto era anche il solo dove lei potesse colpire.
Fedele al suo stereotipo, ha reagito in maniera subdola e aggressiva, come ci si aspetta da una quarantacinquenne che racconta alle colleghe di acquagym quante volte al mese cornifica il marito. «Sai che oggigiorno con l’amniocentesi si può scoprire se aspetti un figlio con la sindrome di Down oppure no?» ha proseguito, accennando di sfuggita alla mia pancia, ma il tempo sufficiente a scatenarmi un attacco di nausea. «Tu la farai?» ha aggiunto, insoddisfatta. «Dopo i trentacinque te la passa lo Stato, non te l’hanno detto?»
«Stiamo valutando» le ho risposto, infilando alla rinfusa tutte le mie cose nella borsa di tela: l’accappatoio, il costume intero, i due asciugamani, le ciabattine infradito, i prodotti per la doccia.
«Se uno la fa, è perché lo vuole sapere. E se lo vuole sapere, è perché vuole avere la possibilità di scegliere, giusto?»
«O di prepararsi al futuro che l’aspetta» ho ribattuto, chiudendo con uno strattone la zip della borsa, e accingendomi a uscire dallo spogliatoio con i capelli ancora bagnati.
«Non ci si può preparare a una cosa del genere» ha commentato Nadia, assottigliando le labbra in un ghigno compiaciuto.
Non credo ci fosse solo sadismo nelle sue parole. C’era qualcosa di più. Qualcosa di terribile, forse, di orribilmente umano. Una specie di tabù su cui secoli fa è stato posto il sigillo dell’inconfessabile, perché rischiava di rivelare a noi stessi la nostra più nascosta natura. Una verità che ci avrebbe impedito di evolverci, di imparare a mentire, di convivere in società civili. Anche se scelte per offuscare i pensieri di una donna incinta, le parole di Nadia venivano da lontano, dall’origine del tempo. Erano imprigionate nell’ambra, stampate nella roccia come i resti di un fossile. Erano la preistoria, ieri, un attimo fa.
Mentre m’infilavo la giacca, ha voluto assestare un ultimo colpo: «Non posso immaginare» ha sussurrato «qualcuno che tolga la vita a una creatura come Teodoro».
Sentivo formicolarmi la gola e le guance, e provavo disgusto per l’espressione di simulato turbamento che mi contrapponeva. Per le sue unghie lunghe, appuntite, laccate di un color prugna marcia. Per i costumi griffati e la cuffia di gomma bianca a forma di bouquet. Per il trucco vistoso e resistente all’acqua.
«È difficile immaginare un bambino che non è mai venuto al mondo» ho concluso, prima di voltarmi senza salutarla e avviarmi verso l’uscita. […]
Ho varcato la porta dello spogliatoio con i crampi allo stomaco. Ho salito i gradini che portano all’atrio e salutato con un cenno la ragazza alla reception. L’aria fuori dall’edificio grigio e rettangolare era umida e penetrante. Affrettandomi alla macchina, mi sono riparata i capelli con il cappuccio della tuta. Una volta dentro, ho respirato a fondo, e ho sentito un dolore atavico risvegliarsi da qualche parte del mio corpo, propagarsi verso l’utero, aumentare fino a trasformarsi in una serie di piccole contrazioni. Brevi attentati ripetuti che hanno creato più paura che vera sofferenza."
tratto da "Nessuno sa di noi" - Simona Sparaco, Giunti Ed.