elsy63
05-07-2009, 20:21
La Nazione del 05-07-2009
Che Primo Conti le dovesse molto lo si capisce dalla ...
FIRENZE. Che Primo Conti le dovesse molto lo si capisce dalla quantità di tele e disegni dedicati a lei, ne sono piene le pareti di casa e anche dello studio. D'altronde è proprio nel rapporto fra arte e psiche che Graziella Magherini ha trovato il bandolo della sua matassa, una lunga storia cominciata a San Salvi e proseguita agli Uffizi e all'Accademia, a studiare gli effetti dei capolavori sugli animi più sensibili. E' stata fra le prime fiorentine a laurearsi in medicina. La prima italiana a fare il primario ospedaliero, reparto psichiatria. E la prima a coniare la formula della sindrome di Stendhal, ormai famosa in tutto il mondo. Con l'ultimo libro (Mi sono innamorata di una statua') è andata oltre, com'è nel suo destino. Donna forte, asciutta, coraggiosa. Il coraggio di chi ha scelto di guardare in faccia il lato oscuro della mente. A cosa sta lavorando, professoressa? «All'arte-terapia, ci tengo molto. L'associazione che ho fondato dieci anni fa insieme a tanti altri professionisti sta dando frutti in tutto il mondo. Mi appassiona molto». Per gran parte della vita si è occupata di malattia mentale, quando ha incrociato l'arte? «Sono stata primario di psichiatria a Santa Maria Nuova dal 77 al 92. Fra i tanti pazienti che arrivavano c'era un numero considerevole di stranieri che manifestavano brevi ma intensi attacchi di panico. Cominciai a indagare e scoprii un fenomeno che poi ho chiamato sindrome di Stendhal». Chi colpisce? «Gli animi più sensibili, resi più fragili da alcuni fattori come lo stress di un viaggio. Ma poi ho scoperto che questa era solo la punta dell'iceberg. In tutti noi l'opera d'arte agisce sulle nostre parti più profonde, quelle che risalgono alle prime esperienze estetiche: i primi colori, i primi suoni, il volto della madre. E possono risvegliare zone ed emozioni rimosse». L'artista più pericoloso, da questo punto di vista? «Caravaggio, ad esempio. Perché coinvolge la sfera psico-sessuale e può mettere in crisi individui che non hanno risolto la fase dell'ambiguità». Ma l'arte può essere terapeutica. Lo ha provato anche su di lei? «Sì. Ho sofferto molto delle ansie dovute a un padre che non accettava il fatto che io, donna, studiassi e diventassi dottoressa. Era una famiglia semplice, lui faceva il ferroviere. E io mi sono fatta tutta da sola. Nei momenti di allarme interno trovavo rifugio camminando per Firenze, sostando davanti al Battistero: i disegni geometrici e la sua bellezza placavano le mie angosce». Altri aiuti? «La lettura. Proust, per me, è stato una medicina». Come agisce, l'arte-medicina? «L'arte (non solo quella visiva) riesce a farci sentire ciò che non abbiamo mai espresso, mai saputo. E quindi può diventare un grande fattore di crescita e maturazione». Cos'è un'emozione estetica? «Nasce con l'uomo, come dicevo prima. Può essere poi repressa o sviluppata a seconda dell'educazione. Se sviluppata, allarga l'intelligenza e dà equilibrio». Dica la verità: è stata mai attaccata dai colleghi psicanalisti o psichiatri? «E come no. All'inizio molti hanno messo in dubbio la validità delle mie teorie. Ora sono state accettate in tutta la comunità scientifica». Il suo primo impatto con la malattia mentale? «A San Salvi, dove ho cominciato a lavorare prima della riforma. Allora la malattia mentale era confusa con il disagio esistenziale e con la devianza causata dall'emarginazione. Fui fra coloro che si batterono per distinguere: curare il disagio mentale ma aprire le porte agli altri». Lei è psicanalista: favorevole o contraria all'uso degli psicofarmaci? «Favorevole. Mai, però, senza un intervento anche psicologico». Che ricordo ha del popolo di San Salvi? «Quasi tutti i pazienti venivano dalle classi povere, Oltrarno e Santa Croce. I ricchi andavano nelle cliniche». Come definisce il disagio mentale? «Concorrono molti fattori. In genere oltre alla predisposizione individuale c'è un nodo nelle prime relazioni con il gruppo familiare». I rischi delle famiglie di oggi? «Far pagare ai figli un'organizzazione utile solo per gli adulti». Cosa serve per crescere mentalmente sani? «Il codice materno e quello paterno, chiari e distinti. I maggiori disagi degli adolescenti di oggi vengono da una carenza del codice paterno. Padri o troppo materni o troppo assenti che non sanno trasmettere le regole e quell'identità sessuale necessari per una buona crescita». Tornerebbe alla famiglia patriarcale? «No davvero, è stato giusto superare quel tribunale interno ed è sacrosanto che fra uomo e donna ci sia parità. Ma ognuno deve svolgere il suo ruolo». Primo Conti era un suo paziente? «Non posso risponderle. Posso dirle che anche lui, nei momenti di angoscia, andava a curarsi a San Miniato». Di chi era il volto che torna sempre nei suoi dipinti? «Della baby sitter dei miei figli, è stata la sua musa. Aveva 45 anni meno di lui».
Che Primo Conti le dovesse molto lo si capisce dalla ...
FIRENZE. Che Primo Conti le dovesse molto lo si capisce dalla quantità di tele e disegni dedicati a lei, ne sono piene le pareti di casa e anche dello studio. D'altronde è proprio nel rapporto fra arte e psiche che Graziella Magherini ha trovato il bandolo della sua matassa, una lunga storia cominciata a San Salvi e proseguita agli Uffizi e all'Accademia, a studiare gli effetti dei capolavori sugli animi più sensibili. E' stata fra le prime fiorentine a laurearsi in medicina. La prima italiana a fare il primario ospedaliero, reparto psichiatria. E la prima a coniare la formula della sindrome di Stendhal, ormai famosa in tutto il mondo. Con l'ultimo libro (Mi sono innamorata di una statua') è andata oltre, com'è nel suo destino. Donna forte, asciutta, coraggiosa. Il coraggio di chi ha scelto di guardare in faccia il lato oscuro della mente. A cosa sta lavorando, professoressa? «All'arte-terapia, ci tengo molto. L'associazione che ho fondato dieci anni fa insieme a tanti altri professionisti sta dando frutti in tutto il mondo. Mi appassiona molto». Per gran parte della vita si è occupata di malattia mentale, quando ha incrociato l'arte? «Sono stata primario di psichiatria a Santa Maria Nuova dal 77 al 92. Fra i tanti pazienti che arrivavano c'era un numero considerevole di stranieri che manifestavano brevi ma intensi attacchi di panico. Cominciai a indagare e scoprii un fenomeno che poi ho chiamato sindrome di Stendhal». Chi colpisce? «Gli animi più sensibili, resi più fragili da alcuni fattori come lo stress di un viaggio. Ma poi ho scoperto che questa era solo la punta dell'iceberg. In tutti noi l'opera d'arte agisce sulle nostre parti più profonde, quelle che risalgono alle prime esperienze estetiche: i primi colori, i primi suoni, il volto della madre. E possono risvegliare zone ed emozioni rimosse». L'artista più pericoloso, da questo punto di vista? «Caravaggio, ad esempio. Perché coinvolge la sfera psico-sessuale e può mettere in crisi individui che non hanno risolto la fase dell'ambiguità». Ma l'arte può essere terapeutica. Lo ha provato anche su di lei? «Sì. Ho sofferto molto delle ansie dovute a un padre che non accettava il fatto che io, donna, studiassi e diventassi dottoressa. Era una famiglia semplice, lui faceva il ferroviere. E io mi sono fatta tutta da sola. Nei momenti di allarme interno trovavo rifugio camminando per Firenze, sostando davanti al Battistero: i disegni geometrici e la sua bellezza placavano le mie angosce». Altri aiuti? «La lettura. Proust, per me, è stato una medicina». Come agisce, l'arte-medicina? «L'arte (non solo quella visiva) riesce a farci sentire ciò che non abbiamo mai espresso, mai saputo. E quindi può diventare un grande fattore di crescita e maturazione». Cos'è un'emozione estetica? «Nasce con l'uomo, come dicevo prima. Può essere poi repressa o sviluppata a seconda dell'educazione. Se sviluppata, allarga l'intelligenza e dà equilibrio». Dica la verità: è stata mai attaccata dai colleghi psicanalisti o psichiatri? «E come no. All'inizio molti hanno messo in dubbio la validità delle mie teorie. Ora sono state accettate in tutta la comunità scientifica». Il suo primo impatto con la malattia mentale? «A San Salvi, dove ho cominciato a lavorare prima della riforma. Allora la malattia mentale era confusa con il disagio esistenziale e con la devianza causata dall'emarginazione. Fui fra coloro che si batterono per distinguere: curare il disagio mentale ma aprire le porte agli altri». Lei è psicanalista: favorevole o contraria all'uso degli psicofarmaci? «Favorevole. Mai, però, senza un intervento anche psicologico». Che ricordo ha del popolo di San Salvi? «Quasi tutti i pazienti venivano dalle classi povere, Oltrarno e Santa Croce. I ricchi andavano nelle cliniche». Come definisce il disagio mentale? «Concorrono molti fattori. In genere oltre alla predisposizione individuale c'è un nodo nelle prime relazioni con il gruppo familiare». I rischi delle famiglie di oggi? «Far pagare ai figli un'organizzazione utile solo per gli adulti». Cosa serve per crescere mentalmente sani? «Il codice materno e quello paterno, chiari e distinti. I maggiori disagi degli adolescenti di oggi vengono da una carenza del codice paterno. Padri o troppo materni o troppo assenti che non sanno trasmettere le regole e quell'identità sessuale necessari per una buona crescita». Tornerebbe alla famiglia patriarcale? «No davvero, è stato giusto superare quel tribunale interno ed è sacrosanto che fra uomo e donna ci sia parità. Ma ognuno deve svolgere il suo ruolo». Primo Conti era un suo paziente? «Non posso risponderle. Posso dirle che anche lui, nei momenti di angoscia, andava a curarsi a San Miniato». Di chi era il volto che torna sempre nei suoi dipinti? «Della baby sitter dei miei figli, è stata la sua musa. Aveva 45 anni meno di lui».